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Pandemia e lockdown: un nuovo modello di Salute?

di Lorenzo Lasagna

[Precedentemente apparso in Contro Corrente. Saggi contro la deriva antropologica, vol. 8, Edizioni Croce Via, 2020]



12 ottobre 2020


PREMESSA

La crisi seguita al contagio pandemico ad opera dell’agente infettivo SARS-CoV-2 ha modificato i paradigmi sottostanti a molte delle relazioni umane e sociali all’interno delle nostre comunità.
Non possiamo sapere se tale mutamento sarà solo temporaneo, o se porterà ad una ristrutturazione profonda delle forme di convivenza.
Mentre alcune valutazioni di carattere generale sembrano già possibili, nei casi via via più specifici si possono formulare soltanto ipotesi, che dovranno essere confermate o smentite con un lavoro accurato e ripulito da tesi preconcette. Un’analisi delle conseguenze che la pandemia ha prodotto sui costrutti sociali richiederà anni, ma soprattutto una capacità di dibattere che oggi sembra fare drammaticamente difetto non solo agli esperti di scienze sociali, ma persino agli esponenti delle cosiddette scienze dure, le cui valutazioni e previsioni hanno sin qui rivelato una debolezza e un’approssimazione sconfortanti.
Ad esempio, potremmo chiederci: come cambierà la natura di certe relazioni quasi-affettive tra persone - soprattutto quel largo spettro di manifestazioni corporee della socialità che le diverse culture hanno codificato nei secoli per regolare le forme basilari della relazione tra individui (strette di mano, abbracci, carezze, baci.)? Tutti noi, durante la pandemia, abbiamo vissuto in qualche forma il fastidio legato alla presenza di altri nei nostri spazi di vita: si tratta di una reazione aversiva solo temporanea o — almeno in qualche grado — duratura? Non possiamo saperlo. E quanto cambieranno certi setting che ritenevamo imprescindibilmente legati alla compresenza dei corpi, come quello psicoterapico, quello scolastico, quello liturgico? Come muteranno le nostre abitudini sessuali? Che effetto avranno i nuovi codici di comportamento sullo sviluppo affettivo dei bambini? Come si modificheranno le forme del commercio? E quelle del turismo? E la fruizione di eventi culturali? E l’urbanistica? L’elenco delle domande è talmente ampio (e vago) da apparire quasi sterile. Ciascuna di esse, tuttavia, apre una linea di ricerca che meriterebbe almeno qualche approfondimento.
In questo breve articolo mi piacerebbe tentare una lettura dei possibili cambiamenti, limitatamente (si fa per dire) al concetto di Salute - che sulle prime può apparire qualcosa di statico e di autoevidente, ma è invece un concetto stratificato e intriso di convenzioni linguistiche, etiche e culturali assai profonde: un vero e proprio paradigma, nel senso che dava a questa parola il filosofo Thomas Kuhn.
La mia domanda, riformulata, potrebbe essere la seguente: è possibile che il complesso di vissuti, di produzioni culturali, di pratiche e di provvedimenti agiti durante il cosiddetto lockdown, abbia espresso un paradigma di Salute diverso da quello che si è affermato in Europa dalla metà del XX Secolo ad oggi? E se sì: cessata l’emergenza, quel paradigma è destinato ad essere riassorbito, a ibridarsi col precedente o a soppiantarlo? Il mio ragionamento riguarderà l’Italia, ma sarebbe interessante estendere prima o poi un simile approccio all’intero ambito continentale europeo.


UN COMPLOTTO? COMPLESSITA’ VS. PILOTAGGIO UNIDIREZIONALE

Voglio precisare che l’oggetto della mia analisi sarà, come detto, un complesso di fenomeni, cioè una risultante articolata di atti individuali e collettivi che si pongono in relazione tra loro, e che — in un rapporto di causalità circolare — derivano da una molteplicità storicizzata di significati, valori e vissuti, sui quali retroagiscono, per condizionarli e modificarli a loro volta. Insomma, l’oggetto del presente studio è un costrutto plurale, impossibile da ridurre a poche variabili di tipo lineare, o a dinamiche semplificate di pilotaggio unidirezionale come quelle che vengono paventate da alcuni, secondo i quali un numero ristretto di persone avrebbe pianificato e attuato i cambiamenti in atto allo scopo di ottenere certi risultati.
Un cambio di paradigma non è un complotto ordito da centrali di potere. E' qualcosa di infinitamente più complesso e contraddittorio. Il che naturalmente non esclude l’esistenza di rapporti di potere all’interno dei corpi sociali: è ovvio che le decisioni di un Capo di Governo o di una Banca Centrale pesino più di quelle di un anziano ammalato di depressione o di un circolo di scacchisti. Né si può ignorare l’ovvio principio di intenzionalità degli atti (il fatto cioè che le persone, e persino i soggetti collettivi, operino di norma in vista di obiettivi consapevoli). Ma entrambe le variabili (dinamiche di potere e intenzionalità cosciente) soggiacciono all’inevitabile resistenza, dispersione e interferenza che ogni fenomeno subisce nei contesti sociali aperti, come quelli in cui viviamo.


I CAMBI DI PARADIGMA NELLE SCIENZE SOCIALI

Le modalità attraverso le quali, ad un certo momento, un paradigma dominante viene sostituito da uno nuovo sono state spiegate dal filosofo della scienza Thomas Kuhn nel suo saggio del 1962 La struttura delle rivoluzioni scientifiche. In estrema sintesi, Kuhn dimostra come, in determinate condizioni, a fronte di nuove scoperte, i modelli scientifici consolidati vengano abbandonati e sostituiti da altri, capaci di spiegare ciò che i precedenti non spiegavano.
Per la verità, a Kuhn interessava stabilire leggi che riguardassero espressamente i modelli scientifici puri: quelli alla base delle scienze classicamente intese. Ambiti come la sociologia o l’antropologia, o l’agire politico, vennero espressamente esclusi dalla sua indagine, ed egli ammonì a non estendere indebitamente l’applicazione delle sue teorie. Gli argomenti di cui vogliamo occuparci cadono effettivamente fuori da quei paletti: parliamo infatti di rappresentazioni sociali, di costrutti che poggiano in parte su consapevolezze di ordine cognitivo, e in parte su rappresentazioni, proposizioni di valore, sentimenti e credenze - nulla cioè che si conformi rigidamente ad una verità fattuale. Tuttavia, non siamo i primi a trasgredire la regola. Le scienze umane hanno spesso mutuato lo schema di Kuhn, adattandolo al proprio ambito disciplinare sebbene numerosi studiosi considerino tale pratica discutibile e fuorviante. Non vogliamo entrare in questo dibattito epistemologico, che oltretutto rischia di perdersi in tediose nominalizzazioni (cos’è un paradigma? E' un oggetto o un costrutto? Attraverso quali regole lo si ricava? Chi lo valida? Esistono davvero paradigmi stabili nel tempo, anche solo in senso relativo?).
Noi adotteremo lo schema in una versione semplificata o debole, avvalendoci delle categorie kuhniane in via puramente analogica e senza la pretesa di enunciare regole rigide sull’avvicendamento tra paradigmi nelle cosiddette scienze sociali. Ci basteranno alcune semplici evidenze: il fatto che le società adottino spesso modelli (cognitivi, valoriali) con tratti condivisi (anche se mai in modo rigido e uniforme), che tali modelli evolvano nel tempo, e che qualche volta essi esauriscano il proprio ciclo di vita per lasciare il posto ad altri. E' sensato, ad esempio, affermare che il paradigma di famiglia possedesse determinati tratti nella società contadina, altri nell’epoca industriale, e che altri ancora ne possieda nella modernità postindustriale. Certo, il paradigma-famiglia non è un oggetto semplice e univoco come potrebbe esserlo un modello cosmologico o una teoria sulle funzioni d’onda; ciò nonostante, utilizzarlo non ci porta necessariamente a conclusioni fallaci, irrilevanti o non verificabili.
Anche nelle scienze sociali poi, quando una rappresentazione dominante perde presa, si verificano passaggi analoghi a quelli che accompagnano il cambio di un paradigma scientifico secondo Kuhn. Anzitutto, si produce una crisi, cioè una situazione nella quale il vecchio modello non ha più efficacia, in secondo luogo, il vuoto aperto dal declino del vecchio modello viene riempito da un modello più adatto e meglio funzionante. La differenza è che nelle scienze dure il punto di rottura è stabilito dalla capacità di spiegare (e prevedere) i fenomeni oggettivi, mentre nelle scienze umane esso riguarda oggetti più volatili, come i costrutti e le rappresentazioni sociali, le opinioni e i giudizi di valore.


PARADIGMI DI SALUTE/1: IL MODELLO BIO-MEDICALE

Nell’Occidente moderno l’idea di Salute è stata declinata in due distinti paradigmi.
Il paradigma bio-medicale ha accompagnato lo sviluppo della scienza medica dal suo sorgere sino all’alba del XX Secolo: si tratta del paradigma che qualunque studente di liceo potrebbe facilmente ricavare dalla filosofia cartesiana e dalle sue derivazioni meccanicistiche, come ad esempio le teorie fisiologiche formulate da Julien Offray de La Mettrie ne L’Uomo macchina del 1747.
Quando la scienza medica dovette darsi un oggetto e un metodo, il primo passo che intraprese fu quello di reificare il corpo umano per poterlo trattare come una cosa di cui studiare il funzionamento. Fu un passaggio obbligato per riscattare la pratica medica dalle vaghezze del pensiero magico o dalle astratte categorizzazioni della filosofia classica, ma fu anche uno snodo gravido di conseguenze. Portò infatti a concepire la terapia come una pratica meccanicistica, il paziente (dal latino patiens: «colui che patisce») come un oggetto divisibile in parti, il corpo malato come una macchina da aggiustare, e infine la cura come una relazione unidirezionale e asimmetrica nella quale colui che sa (il medico) opera in base a conoscenze predeterminate su colui che non sa (il paziente) - e tutto ciò che in quella relazione non può essere ricondotto a variabili fisiologiche misurabili dev’essere considerato un’inutile fonte di disturbo.


PARADIGMI DI SALUTE/2: IL MODELLO BIO-PSICO-SOCIALE

La visione riduzionista sottesa al paradigma bio-medicale (uomo = corpo biologico) entra progressivamente in crisi nel XX Secolo sotto la spinta di emergenze sanitarie chiaramente imputabili a variabili sociali (le epidemie) o a determinati stili di vita (patologie cardiovascolari e oncologiche), ma anche in seguito al crescente sviluppo delle scienze umane e di alcune loro specifiche correnti o ambiti (la psicologia sociale, il pensiero sistemico, la sociobiologia, etc.).
Sebbene le fondamenta del nuovo modello vengano convenzionalmente fatte risalire alla definizione di salute formulata nel 1948 dall’Organizzazione Mondiale della Sanità (uno "stato di completo benessere fisico, psichico e sociale e non semplice assenza di malattia"), per una sistematizzazione del concetto occorrerà attendere grosso modo la seconda metà degli anni settanta. Tra le prime pubblicazioni ad offrire una visione compiuta dell’approccio oggi chiamato modello bio-psico-sociale, si citano di norma i lavori dello psichiatra statunitense George Libman Engel [1], volti al superamento dell’impostazione bio-medica e al perseguimento di una più efficace pratica clinica. La svolta introdotta dal nuovo paradigma non consisté semplicemente nell’individuare nuovi contesti (nella fattispecie la psiche del paziente e l’insieme delle sue relazioni sociali) attraverso i quali diventava possibile ottenere maggiori informazioni cliniche, ma soprattutto nell’abbracciare la consapevolezza, derivata dalla teoria dei sistemi, che tali fattori interagiscono in modo talmente profondo da non consentire più la riduzione della persona malata a mero oggetto di trattamenti, e da costringere invece il medico (o il terapeuta) ad approcciarla come soggetto e parte attiva dell’intero processo di cura. Tale cambio di prospettiva muterà radicalmente sia il complesso delle pratiche cliniche, sia i valori, le rappresentazioni sociali e le politiche della Salute. Ciò che emerge dall’adozione del paradigma bio-psico-sociale è un insieme di assunti-base strettamente legati fra loro: 1. la salute diventa un fattore complesso e non può più limitarsi al ripristino dell’integrità organica dell’individuo; 2. il paziente, da oggetto di cura, diventa soggetto attivo e in qualche misura partner della relazione di cura. Nasce il concetto di alleanza terapeutica; 3. la società e il sistema delle relazioni dell’individuo diventano contesti rilevanti e primari per l’efficacia delle politiche di Salute; 4. da una relazione di cura esemplarmente basata sulla competenza (tecnica) del medico, si passa ad una relazione che ha il suo perno nell’empatia, cioè nella capacità dell’erogatore di cura di far entrare il suo sapere in risonanza con l’irriducibile soggettività del portatore di bisogno.


LE MISURE DI CONTENIMENTO (LOCKDOWN): QUALE PARADIGMA DI SALUTE

Non è questa la sede per dibattere sull’efficacia delle misure intraprese nel nostro Paese per il contenimento/mitigazione del contagio, né per giudicare il rapporto costi/benefici che ne deriveranno. Ciò che importa qui è provare a identificare e ad esplicitare, di quelle misure, il sotteso paradigma di Salute.
Se dovessimo esprimere la massima che soggiace ai provvedimenti adottati durante il lockdown, sceglieremmo forse la seguente: «azzerare in primo luogo le occasioni di contagio, quindi gestire i costi delle misure di restrizione che sono state disposte». Lo schema logico prima/poi vale naturalmente tanto sul piano assiologico (cioè del valore), quanto sul piano cronologico: la locuzione 'in primo luogo’ designa infatti sia ciò che è più importante, sia ciò che dev’essere fatto temporalmente prima. Non sottoporremo questa massima ad un vaglio di pertinenza («si tratta di un criterio ben costruito sul piano logico, oppure fallace?»), né ad una critica normativa («è moralmente giusto e desiderabile l’ordine di priorità che si è definito, oppure è sbagliato?»). Ci accontenteremo invece di comprendere se la massima enunciata entri in conflitto col paradigma bio-psico-sociale, e in tal caso, se ne determini una sospensione transitoria, se piuttosto indichi un ritorno al vecchio paradigma (quello bio-medicale), o se invece delinei un paradigma a tutti gli effetti nuovo (e quali ne siano i tratti).
Proviamo ora a mettere in fila alcuni dati di fatto:
  1. La ratio dei comportamenti ammessi, vietati e consentiti durante la fase del lockdown era finalizzata all’azzeramento (tendenziale) delle occasioni di contagio. Possiamo dire che la direttiva alla sua base era una sorta di imperativo epidemiologico: rendere il contagio impossibile (nella pratica: altamente improbabile), isolando le persone le une dalle altre.
  2. Nell’impossibilità di disporre in modo perfetto tale isolamento, venivano accordate alcune deroghe: a determinate condizioni ci si poteva recare in taluni luoghi (supermercati, luoghi di lavoro, ospedali, etc.) e si poteva godere della vicinanza di altri individui (i membri del proprio nucleo familiare, i colleghi di lavoro, i clienti dello stesso supermercato, etc.).
  3. Le deroghe non erano state accordate sulla base di scelte di valore, ma in base a mere considerazioni di fatto: certi settori produttivi non potevano essere bloccati (pena il collasso del corpo sociale), le persone residenti nello stesso luogo non potevano essere divise e ricollocate, e chi fronteggiava urgenze indifferibili (tra queste, le urgenze mediche) non poteva permanere nella propria abitazione. È interessante notare come — da subito — l’attenzione si sia concentrata su aspetti di scarsa o nulla rilevanza sotto il profilo della Salute, come il diritto di passeggio per i cani o il divieto di svolgere attività fisica all’aperto. In sintesi — questo ci importa — quasi nessuna deroga ha riguardato un diritto alla Salute inteso in senso bio-psico-sociale [2].
  4. Una volta stabilito il punto di equilibrio tra il principio generale (restrittivo) e le motivate deroghe [3], non si è ritenuto di attivare azioni specifiche per il supporto alle fragilità minacciate dal nuovo assetto. Infine, si è lasciato che vaste no man’s land (si pensi alle residenze sanitarie assistenziali per anziani e alle carceri) operassero per arginare la crisi, nelle fasi più critiche dell’epidemia, in situazione di totale emergenza e di quasi completa assenza di direttive, supporto e risorse adeguate da parte dello Stato e delle Regioni [4].
Possiamo quindi affermare che i fattori bio-psico-sociali di salute da un lato non sono stati considerati un valido motivo di deroga al principio dell’isolamento epidemiologico, mentre dall’altro non sono stati oggetto di interventi specifici.
Gli esempi di categorie di individui fragili, il cui livello di benessere bio-psico-sociale rischiava di essere compromesso o anche solo sensibilmente peggiorato a seguito delle azioni intraprese, sono potenzialmente infiniti, e si estendono da target prossimi alla norma sociologica (famiglie con bambini, anziani attivi, studenti, persone legate tra loro da relazioni affettive primarie ma non conviventi), sino ad aree di disagio più marcato come lo svantaggio economico o socioculturale, la disabilità, l’invalidità, i contesti familiari caratterizzati da abusi o maltrattamenti, gli anziani soli e/o assistiti a domicilio, i carcerati, le persone con disagio psichico lieve oppure grave (le sempre più numerose e variegate forme di dipendenza, i disturbi d’ansia, dell’apprendimento o del comportamento alimentare, le depressioni, le psicosi, eccetera). E' un semplice dato di fatto che, per queste categorie di persone (e non c’è bisogno di perdersi in conteggi troppo circostanziati per comprendere che stiamo parlando di milioni d’individui), la ratio alla base dei provvedimenti di lockdown non prevedesse né deroghe, né azioni specifiche. La questione, senza alcun intento polemico, è allora: quale idea condivisa di salute si può ricavare da una simile condotta, attuata — questo è importante — con la sostanziale approvazione dell’opinione pubblica e senza eccessivi distinguo da parte degli addetti ai lavori?


UN TENTATIVO DI LETTURA DEL NUOVO PARADIGMA

Proviamo ad esaminare alcune implicazioni e corollari della massima «azzerare in primo luogo le occasioni di contagio, quindi gestire i costi delle misure di restrizione che sono state disposte».
Anzitutto, si noti il fatto che la massima definisce una strategia emergenziale — una caratteristica, questa, che sembrerebbe avvalorare l’ipotesi della temporaneità del nuovo paradigma. Ma la freccia del tempo presenta il noto problema di non essere reversibile. Una volta che sia stata eseguita una sequenza di atti, non è infatti possibile risalirla dall’effetto verso la causa. L’effetto è al limite gestibile, ma non è certo revocabile. Quindi (come insegniamo ai bambini) grande attenzione va posta sulle possibili conseguenze che la prima azione intrapresa produrrà. Nel nostro caso: una volta fatta cadere la prima tessera del domino, avremo ancora modo di sistemare le altre? È il dilemma del piano inclinato: dopo aver fatto A sarà ancora possibile fare B, oppure A ci porterà inesorabilmente altrove, ad esempio verso C? L’esempio più classico di questa difficoltà è il tradeoff tra libertà e sicurezza. Se derogo alle libertà costituzionali per la repressione di un incombente pericolo terrorista, riavrò indietro tutta la mia libertà quando il pericolo sarà infine debellato, o nel frattempo il paradigma dell’equilibrio accettabile tra libertà e sicurezza avrà subito modifiche decisive in favore della seconda e a irrimediabile detrimento della prima?
In secondo luogo, ci stiamo dimenticando di attribuire un valore (per lo meno approssimativo) alle due incognite presenti nella massima. Quanto siamo disposti a restringere, e quanto a pagare i necessari costi del restringimento? Quale quota-limite di suicidi, depressioni, maltrattamenti familiari, divorzi, licenziamenti, fallimenti, abusi di alcol e farmaci, deprivazioni relazionali in età evolutiva, tassazione per il necessario rafforzamento del welfare, ci sembrerà accettabile oltrepassare, pur di minimizzare il rischio di contagio? La natura temporale della nostra massima, purtroppo, non ci aiuta a risolvere con tranquillità l’equazione, perché le due incognite sono come i proverbiali uovo oggi e gallina domani: una ragionevole certezza contro una scommessa a vincere (o a pareggiare); il che rende la massima non solo squilibrata, ma anche instabile: quali costi stiamo sottovalutando, che ad un primo esame ci erano parsi sostenibili ma che non potremo o non vorremo sostenere al momento del redde rationem? Quando diciamo «azzerare in primo luogo le occasioni di contagio, quindi gestire i costi delle misure di restrizione che sono state disposte», siamo davvero sinceri e bene informati, o stiamo semplicemente chiedendo che ci venga accordato un beneficio (apparentemente) certo, scommettendo sulla nostra capacità di poter pagare un costo in realtà non quantificabile? In conclusione: il paradigma messo a punto durante il lockdown sarà ancora valido tra un anno, quando la parte dei costi risulterà più chiara e meglio quantificabile? [5]


UN NUOVO PARADIGMA?

Sulle prime, il paradigma identificato sembrerebbe indicare una regressione dal modello bio-psico-sociale a quello bio-medicale. Lo lascerebbe credere la priorità che esso accorda alla tutela dei corpi (più precisamente: alla protezione dei corpi dagli effetti di un singolo fattore epidemico, cioè il contagio ad opera del virus SARS-CoV-2) e la rimozione di tutti gli altri fattori, non solo quelli psicologici e sociali, ma addirittura buona parte degli indicatori biomedici che non siano legati allo sviluppo della COVID-19. Ad esempio, abbiamo letto del ritardo che il lockdown ha causato nelle diagnosi e nel trattamento di pazienti affetti da patologie anche gravi (si pensi a quelle oncologiche) e in forma acuta. I dati di cui disponiamo al riguardo non sono sistematici, e sarebbe poco rigoroso ricavarne conclusioni stringenti. Ma è accertato il fatto che la priorità nel trattamento della COVID-19 abbia avuto costi elevati sia sul piano sociale [6], sia sulla vasta area del disagio psichico [7], sia sul funzionamento del sistema medico-sanitario stricto sensu [8].
Come accennato, l’argomento che viene più spesso avanzato per ridimensionare la portata di tali effetti si basa sulla loro presunta eccezionalità, e dunque sulla loro temporaneità. È un argomento che non può essere ignorato, ma che non può nemmeno essere assunto come ipotesi ad hoc. Va dimostrato, e per farlo ci vorrà tempo. Nel frattempo, è legittimo nutrire qualche perplessità riguardo al fatto che un’emergenza di queste proporzioni possa rientrare senza lasciare tracce e senza costituire, in futuro, uno schema d’azione reiterabile. Uno Stato e un sistema sanitario che attuano provvedimenti di questa portata, imprimono infatti una robusta inerzia al sistema sociale, creano un significativo precedente e gettano le basi per una modifica radicale di percezioni e valori tanto nella classe politica, quanto nei media e nell’opinione pubblica. Mentre scriviamo, ad esempio, la sospensione delle attività didattiche nella scuola dell’obbligo (o la loro prosecuzione in forme deboli, sporadiche e inefficaci) appare a molti osservatori un prezzo tutto sommato accettabile, se davvero il beneficio che potrà conseguirne sarà la protezione della popolazione da una malattia infettiva. Superfluo osservare che solo pochi mesi addietro un simile provvedimento sarebbe stato valutato in modo affatto diverso. Anche il paradigma del diritto universale all’istruzione sembra dunque essere cambiato in seguito al profondo shock emotivo e simbolico subito durante la pandemia.
In ogni caso, come ha scritto Yuval Noah Harari, «le misure temporanee hanno la cattiva abitudine di permanere nel tempo, tanto più che, all’orizzonte, c’è sempre una nuova emergenza in agguato» [9]. Quella della temporaneità dei cambiamenti è dunque un’ipotesi da vagliare, ma sulla quale non è possibile fare troppo affidamento.
Se all’argomento della temporaneità non possiamo (per il momento) opporre contro-argomentazioni risolutive, possiamo tuttavia avanzare dubbi sostanziali sull’ipotesi di un avvenuto 'ritorno al paradigma bio-medicale’. L’importanza delle componenti psico-sociali della Salute è infatti troppo radicata nella percezione sociale per pensare che la paura del contagio le abbia semplicemente scacciate dall’orizzonte delle nostre aspettative di benessere.
Acquisizioni come il valore sistemico del benessere, la centralità della persona, l’interdipendenza tra i diversi fattori di salute, l’interazione mente-corpo, la rilevanza degli stili di vita e della prevenzione (per citare solo le più rilevanti implicazioni del modello bio-psico-sociale), sono talmente consolidate nel senso comune da poter essere considerate non-reversibili.
Inoltre, con il passare dei mesi e con il crescere della distanza temporale dalla fase del lockdown, tutti gli indicatori segnalano una veloce risorgenza, nel discorso pubblico, dell’attenzione ai fattori psico-sociali - sebbene in una misura ancora da valutare. Temi come la ripresa dell’attività didattica, il futuro dei servizi agli anziani, i trattamenti medici e sanitari delle patologie non-Covid, la resilienza davanti alla crisi dei comparti economico-produttivi e dei livelli occupazionali, riguadagnano centralità tanto nei sondaggi d’opinione quanto negli approfondimenti dei media tradizionali e digitali. Tutto lascia pensare che, settimana dopo settimana, il ristabilirsi di bisogni meno emergenziali e più a tutto tondo debba accrescersi anziché ridursi o stabilizzarsi.
Fatte salve nuove recrudescenze epidemiche, la semplice promessa di immunità dal contagio sembra dunque destinata a perdere presa di fronte al risorgere di criticità e disagi riferibili alle altre variabili in gioco. Possiamo concluderne che difficilmente una popolazione abituata a standard elevati di benessere accetterà di tornare ad una concezione piatta, riduzionistica e mono-dimensionale della propria salute.
Esistono però alcune evidenze che entrano in conflitto con questo assunto. L’aut-aut isolamento-o-contagio, ad esempio, rispecchia nella sua cogenza uno schema di tipo dualistico, che irrigidisce lo spettro delle variabili di Salute ad un’alternativa secca tra salute e malattia, un pattern che rivela una chiara origine bio-medicale.
Dunque? Quale modellizzazione può essere tentata del nuovo paradigma di Salute post-covid?
Prima di abbozzare una (prudente) risposta a questa domanda è utile rimarcare come ogni discorso pubblico sulla Salute, nell’Occidente contemporaneo, non possa prescindere da una (radicata, quanto irrealistica) aspettativa di benessere totale e prolungato. Anche la disciplina dimostrata dalla grande maggioranza della popolazione durante il lockdown, non può essere spiegata solamente con la paura del contagio (che pure vi ha giocato un ruolo decisivo). La vera natura di quel gesto può essere compresa solo nel quadro di un patto d’immunità: una significativa e prolungata rinuncia, assunta in cambio di una promessa di benessere ancora maggiore e più duraturo.


UN PRIMO COROLLARIO: TUTTO IL POTERE AL DATO

Nonostante qualcuno insista nell’affermare il contrario, la congiuntura che abbiamo attraversato ha portato a una crisi pressoché definitiva della fiducia nel dibattito scientifico pubblico. Alla prova dei fatti, quando si è trattato di dimostrare la superiorità epistemologica della discussione condotta da specialisti rispetto alla congerie di fattoidi e fake news generata dalle opinioni, i risultati sono stati catastrofici. Gli scienziati, trovatisi (quasi) di punto in bianco sul proscenio della comunicazione digitale e social, hanno adottato lo stile comunicativo di politici e intrattenitori, senza mai preoccuparsi di apparire come membri di una comunità scientifica classicamente intesa (unita dall’applicazione di un metodo, e capace di darsi regole per poi agire applicando quelle regole in modo formalmente validato). Durante la pandemia, i virologi sono assurti velocemente a nuova categoria mediatica e politica, abbandonando d’emblée tutti i principi di retta argomentazione e razionalità critica cui proclamavano solennemente di ispirarsi solo qualche mese prima (ad esempio, nel portare avanti le campagne vaccinali obbligatorie). Tra le macerie del (deprimente) spettacolo che ne è derivato, è rimasta in piedi (con qualche graffio) solo la confidenza generale nel potere del dato. Il numero nudo e crudo. Poco importa che — già dopo qualche settimana — la base analitica su cui si sostenevano mappature e calcoli si sia rivelata a dir poco fragile: a fronte della disastrosa performance degli scienziati in carne e ossa, il dato ha potuto mantenere quasi intatta la propria allure, e promette oggi di rappresentare il fondamento su cui poggiare la validazione tecnica e politica delle strategie in materia di salute pubblica. Possiamo dunque prevedere come primo corollario del nuovo paradigma, il passaggio da un paradigma qualitativo (com’era il paradigma bio-psico-sociale) ad un paradigma di salute non solo evidence based, ma addirittura data driven, cioè sancito e legittimato in primo luogo dai dati, e nel quale la fonte primaria di verità sarà rappresentata da un ipotetico grado-zero di oggettività. Può sembrare un passaggio di poco conto, ma non lo è. Tutto il sistema delle politiche di welfare europee si regge infatti sin dalla sua origine su una presa in carico di tipo umanistico. La decisione, intesa come il momento cruciale nel quale ogni risposta al bisogno prende forma, è sin qui sempre stata appannaggio di un case manager che agiva essenzialmente sulla base di deliberazioni soggettivamente assunte — per quanto ponderate, argomentabili e rendicontabili. In un sistema di welfare permeato dal paradigma bio-psico-sociale, il perno dell’accesso era cioè un decisore umano non sostituibile (nel nostro sistema, di volta in volta, si tratta del medico specialista, del medico di medicina generale, dell’assistente sociale, eccetera). Nel nuovo paradigma la decisione umana promette invece di essere non solo basata su dati (per usare una locuzione nota: assunta in scienza e coscienza), ma addirittura vincolata ai dati e validata attraverso di essi. Si tratta di un passaggio che non si compie certo dal nulla in queste settimane, ma che ha avuto nella crisi un potentissimo acceleratore, e forse anche la sua definitiva consacrazione. Le analisi di questo mutamento sono da qualche anno al centro dell’attenzione di molti analisti. Noi ci limitiamo a prevedere che la pandemia sposterà velocemente il sistema delle prese in carico e delle decisioni di invio dalle professionalità mediche e sociosanitarie, agli apparati di misurazione e di calcolo. Il che solleverà una serie di questioni inaggirabili di ordine etico e politico, ma anche di cultura e di esperienza dell’accesso ai servizi.


SECONDO COROLLARIO: UNA SALUTE TECNOLOGICAMNTE GOVERNATA

Al punto di sviluppo cui siamo giunti, una massiccia raccolta e un’efficace analisi del dato comportano come sappiamo un massiccio impiego delle tecnologie. Anche su questo punto sono già state svolte analisi esaurienti, e non serve insistere oltre. L’unica osservazione che mi sento di aggiungere, è relativa al livello della percezione sociale: il paradigma delineatosi durante l’emergenza sembra infatti favorire la tecnologia non solo come asset o come strumento, ma anche come ideologia e come narrazione. Ancora nei mesi di picco del contagio in Italia, La Repubblica pubblicava un’intervista a Shoshana Zuboff, ricercatrice della Harvard Business School (e autrice di saggi come Il capitalismo della sorveglianza), la quale rilasciava questa sorprendente dichiarazione in favore delle misure di restrizione della privacy: «Nel mondo dei sistemi sanitari, la parola sorveglianza ha da decenni [sic] una valenza completamente differente da quella che usiamo quando si tratta delle multinazionali private che operano sul Web. Specialmente in caso di epidemie, un sistema di sorveglianza non è affatto una cosa che va contrastata o temuta» [10].
A chiunque abbia letto anche solo distrattamente qualche paragrafo delle opere di Foucault o di Deleuze, questa idea del controllo in sanità come qualcosa di socialmente desiderabile e di intrinsecamente positivo sul piano etico appare talmente ingenua da risultare sospetta. Da secoli (altro che decenni) la salute pubblica è (anche) uno strumento di governo sociale e — ove necessario — di controllo e repressione. Lo è almeno quanto l’economia, la religione, la guerra, il lavoro. Non c’è situazione contingente che possa 'sterilizzare' questa sua naturale ambivalenza.
Senza demonizzare i cambiamenti in atto o respingerli sulla base di pregiudizi generici, dev’essere ben chiaro che nessun mutamento di paradigma in tema di Salute sarà mai un fenomeno neutro. Quello che possiamo dire per certo, è che la tecnologia sarà parte in causa dei nuovi modelli di salute data driven, e che di certo non sarà un fattore puramente tecnico della loro evoluzione futura: esporrà anzi a rischi di varia natura, e non si governerà con rassicurazioni o narrazioni interessate, ma con un innalzamento della capacità critica da parte di analisti e operatori, classe politica, comunità di saperi e opinione pubblica.


TERZO COROLLARIO: UN MODELLO STRUTTURALMENTE INSTABILE

Ed eccoci al dunque. Ogni nuovo assetto sociale pone alternative forti, nelle quali la stima dei costi e dei benefici può avvenire solo per approssimazione. Un modello che va affermandosi a spese di un altro, soprattutto in un corpo sociale che versa in situazione di declino strutturale, com’è l’Europa, genera poderosi assestamenti. Mantenere un’aspettativa di benessere totale e prolungato in un contesto caratterizzato da calo di risorse, crisi demografica, adozione di strumenti sempre più pervasivi e mutamento dei meccanismi di regolazione e d’accesso, sarà non solo estremamente difficile, ma costringerà anche tutte le parti in causa ad esperire una continua, generalizzata negoziazione, alla ricerca di equilibri e di standard socialmente accettabili. Se la crisi del welfare europeo, iniziata a metà degli anni ’70 del ventesimo secolo, è stata principalmente una crisi di crescente difficoltà nell’accesso alle risorse, la crisi che abbiamo davanti sarà probabilmente di un tipo diverso. Sarà una crisi di significati, di priorità, di competenze istituzionali e di valori condivisi, che esporrà i corpi sociali a una continua rinegoziazione e aggiustamento di equilibri tra compressione delle libertà, riallocazioni economiche, promessa di immunità e attesa di un benessere che mantenga come riferimento - nonostante tutto - il golden standard dell’epoca 1945-1975.


QUARTO COROLLARIO: UN BENESSERE A SOMMA ALGEBRICA

Tra gli elementi di novità del nuovo paradigma figura purtroppo l’inevitabile abbandono del disegno di benessere globale a somma crescente che il paradigma bio-psico-sociale aveva incarnato. In esso, i fattori di salute cooperavano e si rafforzavano reciprocamente, mentre nell’attuale paradigma essi sembrano piuttosto compensarsi, dando luogo ad una risultante che funziona come una somma algebrica nella quale la promozione di un certo fattore di Salute passa attraverso la riduzione di un altro. Nel modello classico aveva poco senso domandarsi se, nelle politiche di Salute, la precedenza dovesse essere accordata ai fattori sociali, a quelli psicologici o a quelli biologici: il senso dell’approccio era proprio nella multifattorialità e nella cooperazione delle variabili in gioco. Il modello che sembra prendere forma oggi, invece, impone da subito una serie di drammatici tradeoff: quanto sei disposto a cedere della tua libertà (e/o delle tue relazioni sociali), in cambio di un rischio sensibilmente minore di contrarre talune malattie organiche? A quanta privacy puoi rinunciare in cambio di uno screening completo della tua predisposizione genetica a sviluppare talaltre patologie? Eccetera.
L’avvicendamento permette anche di riflettere su certe implicazioni del paradigma che cede il passo: esso si rivela, a tutti gli effetti, come uno schema che poteva essere praticabile (e sostenibile) soltanto in una congiuntura di elevato e relativamente omogeneo benessere, caratterizzato da parametri economici e demografici in crescita stabile. Lungi dall’essere un’acquisizione irreversibile, forse il modello bio-psico-sociale è stato semplicemente - ci si passi la provocazione - una narrazione forte per tempi fortunati. Insomma, un lusso temporaneo.
Nel quadro attuale, è verosimile che ogni punto di equilibrio debba essere trovato di volta in volta (ma sempre in modo precario) solo sotto l’incombere di spinte, interessi e narrazioni conflittuali (come accade nei giochi a somma zero), a vantaggio di determinati gruppi sociali e a detrimento di altri, a seconda del particolare punto di caduta che si raggiungerà al termine di ciascuna delle fasi negoziali di cui si diceva. Nello scenario peggiore, potremo assistere ad una parcellizzazione del welfare e al definitivo abbandono della sua (sino ad oggi ineliminabile) vocazione universalistica.


CONCLUSIONE: QUALE POSSIBILE ASSETTO PER IL NUOVO MODELLO DI SALUTE

In conclusione (ma è solo la conclusione giocoforza provvisoria di questi nostri appunti), ciò a cui assistiamo sembra essere a tutti gli effetti la formazione di un nuovo paradigma, che consiste in una radicale ristrutturazione del paradigma precedente (il modello bio-psico-sociale), all’interno del quale le singole variabili si pongono in un equilibrio precario e bisognoso di continue negoziazioni sociali, e nel quale i diversi fattori di benessere si compensano come in una somma algebrica.
Precarietà e parcellizzazione delle politiche adottate (e dell’intero sistema) saranno probabilmente la norma.
Inoltre, mentre è facile immaginare che nelle autocrazie e nei Paesi non-democratici il punto di equilibrio verrà volta per volta stabilito e imposto dall’alto, nelle democrazie occidentali i fattori di (temporanea) stabilizzazione del paradigma saranno prevedibilmente legati a dinamiche di forte e risorgente conflittualità diffusa.
Quali fattori potranno limitare o contenere gli effetti descritti e la generale incertezza verso cui sembra dirigersi il welfare italiano ed europeo? Non è facile a dirsi. Certo, sarà compito delle comunità nel loro complesso, definire quanto prima modelli il più possibile condivisi ai quali ispirare le scelte che s’imporranno, anziché subire passivamente il corso delle trasformazioni in atto, cercando di governarne gli esiti a valle. Va detto che purtroppo, sulla base dei primi elementi a nostra disposizione, le premesse non sembrano delle migliori.

Lorenzo Lasagna (Parma, 1971) opera nel settore dei servizi alla persona come manager e formatore. Dal 2007 al 2011 è stato Assessore alla Cultura e al Welfare del Comune di Parma. Ha diretto strutture socio-sanitarie e sanitarie, e attualmente si occupa di Ricerca e Sviluppo per una cooperativa sociale. In parallelo alla sua attività professionale, è autore di articoli, saggi, racconti e romanzi.



NOTE

[1] Cfr. G.L. Engel, The need for a new medical model: a challenge for bio-medicine, in «Science», 196, 1977.

[2] Tra i pochissimi casi di sfida al clima generale di incertezza riguardo l’ applicazione delle restrizioni, segnaliamo il caso dei bambini autistici, che alcuni genitori hanno scelto di contrassegnare con un braccialetto blu durante le passeggiate che venivano effettuate per l’ ovvio motivo di mantenere un accettabile equilibrio psico-fisico durante la quarantena. La circostanza è doppiamente singolare: in primo luogo perché dimostra come la banale rivendicazione di un diritto alla Salute necessitasse di qualcosa di molto simile a un atto di disobbedienza civile, in secondo luogo, perché tale diritto ha dovuto essere difeso mediante una forma di auto-segregazione e di auto-stigmatizzazione quale l’ apposizione di un contrassegno (cfr. Un fiocco blu per i bambini autistici, per uscire senza essere offesi, greenme.it).

[3] Tale equilibrio, come noto, non è mai stato univocamente definito. Tutto il sistema delle regole alla base del lockdown ha continuamente oscillato tra atti in parziale contraddizione tra loro e competenze istituzionali sovrapposte o confliggenti. Tuttavia, per comodità di ragionamento, a noi basta definirlo in astratto come risultante di un principio generale, di alcune regole e delle relative eccezioni.

[4] Cfr. Nicoletta Cottone, Report Iss: nelle Rsa mancavano dispositivi di protezione e farmaci, ilsole24ore.com, 18 giugno 2020, e Sara De Carli, Nessuna fatalità: «Abbiamo deciso che anziani e disabili potevano morire», vita.it, 17 aprile 2020. Per un’indagine strutturata sui contagi nelle RSA, si vedano anche il report del Laboratorio di Politiche Sociali del Politecnico di Milano, Un’ emergenza nell’ emergenza. Cosa è accaduto alle case di riposo del nostro paese? a cura di Marco Arlotti e Costanzo Ranci, e il supplemento a «Vita» RSA: perché è successo? dell’ aprile 2020.

[5] La domanda risulta tanto più rilevante, quanto più si considerino le condizioni di oggettiva difficoltà socioeconomica nelle quali il nostro paese versava già prima della pandemia.

[6] Cfr. Isaac T. Tabner, Five ways coronavirus lockdowns increase inequality, preventionweb.com, 8 aprile 2020.

[7] Cfr. Roberta Miraglia, Lockdown e salute mentale: il 41% di italiani a rischio, ilsole24ore.com, 6 maggio 2020.

[8] Cfr. Irma D’ Aria, Visite rinviate e paura del contagio, i disagi dei pazienti oncologici durante il lockdown, repubblica.it, 15 maggio 2020 e Irma D’ Aria, 28 milioni di interventi chirurgici annullati in tutto il mondo. Per colpa del coronavirus, repubblica.it, 15 maggio 2020.

[9] Il mondo dopo il coronavirus: per Harari non saremo più gli stessi, «firstonline.info», 5 aprile 2020 ( https://www.firstonline.info/il-mondo-dopo-il-coronavirus-per-harari-non-saremo-piu-gli-stessi/).

[10] Cfr. Jaime D’ Alessandro, Shoshana Zuboff: «Le app per il controllo della pandemia possono essere obbligatorie come i vaccini», repubblica.it, 9 aprile 2020 (corsivi miei). Per quanto mi sia sforzato, non sono riuscito a comprendere il termine della periodizzazione suggerita («da decenni»). Quale evento, negli ultimi decenni, avrebbe reso il controllo e la sorveglianza in Sanità, qualcosa di innocuo e addirittura rassicurante?

Leonardo Da Vinci, Codice Windsor, 1478-1518


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